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Home Posta dei Lettori

Dalle stelle alle stalle, origliando finisce tra i maiali

Narrazione tratta dal volume I della storia di Ciro' del Pugliese

byLa Redazione
5 Febbraio 2014
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origliareL’episodio riportato dall’oscuro cronista locale ricorda molto da presso quello esilarante descritto nel XX capitolo della prima parte del ‘Don Chisciotte’, quando lo scudiero terrorizzato dal rumore dei magli della gualchiera e dalle ombre nere del castagno sotto il quale era riparato col padrone, incapace per la paura di appartarsi… cede ai bisogni. Fuor di fola, la narrazione che segue, tratta dal volume I della “Descrizione ed istorica narrazione dell’origine, e vicende politico-economiche di Cirò” del Pugliese, capitolo VI, ‘Partiti, sregolamenti e corruzione di costumi. Virtù ed uomini commendevoli’ è una ‘novella esemplare’, per restare in tema cervantino. L’esposizione fatta da GFP ricorda, e questo dico per esperienza diretta, il modo di narrare di quei ‘rapsodi’, se mi si passa il termine, che erano gli anziani che fino a qualche decennio fa erano capaci, intorno ad un braciere (na vrascèra), o disposti lungo un sedile di cemento (nu settu), o magari in un vicoletto (nu vuccupòrtu, nu strittu) di muovere le fantasie o commuovere gli animi degli ascoltatori, più o meno grandi, più o meno piccini. Aggiungo che il pezzo che segue è anche, o forse soprattutto, una altissima lezione morale del Pugliese fustigatore di costumi, con relativo richiamo ad un altro grande italiano a lungo misconosciuto, il Machiavelli ‘segretario fiorentino’ per antonomasia. Tra le altre cose, e non troppo secondaria, vi è un accenno ad una forma reverenziale che a tutt’oggi resiste nel dialetto cirotano, almeno a mio modestissimo modo di vedere. Il Pugliese non era a digiuno di studi linguistici e denota, modo hic modo illuc, un certo interesse per il dialetto. Sto parlando dell’allocutivo ‘Su’, ovvero ‘Signore, anzi Magnifico, perché il Don ancora non si era generalizzato’. Orbene, ritengo che quel ‘Su’ sia sopravvissuto, nel dialetto cirotano, nel modo di rivolgersi, a dire il vero un po’ troppo reverenziale, a persona di una certa rilevanza e predominanza… per farla breve u discìpulu si rivolgeva al mastru con un ‘su’, ‘su mastru’, che non significa ‘questo mastro’, bensì ‘signor mastro’… non so se comincio ad essere troppo vecchio per farmi capire, o per essere capito, ma dico che in un tempo non troppo lontano, un ‘mastru’, che fosse forgiaru, cusituru, d’ascia o di costruzioni edili, era in qualche modo il depositario di una ‘dottrina’, di un sapere, di segreti e trucchi quasi esoterici, al quale il discente si rivolgeva quasi con sottomissione per ottenere l’ingresso in quel mondo che magari un giorno gli avrebbe concesso una vita decente… Purtroppo i comportamenti e le persone che il Pugliese denuncia, non sembrano essersi estinti, tant’è che esiste ancora l’equivalente cirotano per indicarne gli autori: si chiamano, in forma univerbata, ‘pìjepporta’, che è più specifico rispetto a ‘ruffiano’ o ‘lecchino’… Ed ora lasciamo parlare Giovan Francesco Pugliese.

“Il Barone avendo piena giurisdizione come si è cennato, questa perché esercitata da’ suoi commissionati diveniva più fatale, maggiormente se in vece di un Agente o Primo Ministro forastiere, ve n’era costituito uno paesano, sempre odioso, ed odiato, invido o invidiato. L’Università o Comune che spesso ha prodotto degli uomini di talento e di spirito, sempre alle prese col Feudatario: il corpo degli Ecclesiastici secolari sostenuto dalla giurisdizione del Vescovo che quasi continua residenza aveva in Cirò: lo spirito or mansueto ed elevato, or turbolento de’ Monaci; formavano un misto di sempre rinascenti querele ed inquietudini. Ecco l’origine de’ partiti tra noi. E siccome in ogni popolazione si trovan sempre de’ disperati, che vivono delle scissure e dei torbidi, uomini publico exitio reperti, questi odiando l’onesto lavoro e volendo esistere sulle spalle altrui, vendono l’opera nefanda dello spionaggio or ad un partito or ad un altro, secondochè uno piuttosto che l’altro lor dia da vivere. Si ricordano con orrore due di tali uomini i quali discendevano ad imitare i bruti e ad accomunarsi nelle loro sozzure per investigare quel che l’un partito macchinasse contro dell’altro. I Canonici che più si trovavano stretti dalle circostanze de’ tempi ad uno de’ partiti solevano convenire e sedersi per breve passeggiata nel Santarello fuori porta Mavilia, e seduti in circolo o parlavano degli avvenimenti del giorno, o depravavano, o concertavano. Ogni loro discorso era fedelmente saputo dal contro partito. Postisi tra loro in sospetti non sapevano né che pensare, né che fare; quando a caso un di loro scostatosi per adempiere ad un piccolo bisogno sorprese, colà steso di fianco fra le ortiche che rigogliose vi vegetano innalzandosi come cespugli, lo spione, cui davasi in società del Su, cioè signore, anzi Magnifico, perché il Don ancora non si era generalizzato.




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Costui pria della consueta ora vi si recava ed adagiava per sentire, e quindi riferire! Un Notabile del partito dell’Università delirava come i discorsi ed i piani suoi eran pubblicati e prontamente sventati: si pose in guardia de’ suoi familiari, della famiglia istessa. La fenestra della sua stanza non era troppo alta, e la voce precisamente di notte si sentiva dal basso: molti porci casarecci vi si affollavano a dormire, e ch’il crederia? fra questi immondi animali si era accostumato un altro Su a giacere inosservato da coloro che potevan transitare: egli sentiva e riferiva!! Vi era anche chi sentiva da uno, ed in ore notturne faceva il rapporto ad un altro: vi era chi faceva la ronda e girava per sotto le case de’ contrari per sentire per vedere chi vi entrava, e chi ne usciva. A buon conto si spiavano reciprocamente, e non vi era precauzione che bastasse in tanta corruttela di costumi. Né solo il vero, ma il supposto si riferiva come fatto, e le bugie si accumulavano a’ sospetti, alle prevenzioni, ed alla stizza. Fu quello il tempo in cui non essendo diffusa molto l’arte di scrivere, ma introdotta la moda di processare in anonimo, chi si esercitava a scrivere colla mancina, chi tenendo la penna col pollice ed il mignolo, e chi financo colle dita del piede! Tempi miserandi in cui il morbo pestilenziale non solo gavazzava in Cirò, ma nell’ Italia tutta. E veramente nelle città d’Italia, tutto quello che può esser corrotto e che può corrompersi si raccozza (scriveva il Segretario Fiorentino nelle sue storie). Per questo gli uomini nocivi sono come industriosi lodati, ed i buoni come sciocchi biasimati. I giovani sono oziosi; i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi. Al che le leggi buone per essere dalle usanze cattive guaste non rimediano. Di qui nasce quell’avarizia che si vede ne’ cittadini; e quello appetito non di vera gloria, ma di vituperevoli onori, dal quale dipendono gli odii, le inimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nascono morti, esigli, afflizioni di buoni, ed esaltazioni di tristi. Per che i buoni confidati nella innocenza loro non cercano come i cattivi di chi straordinariamente gli difenda e onori, tantoché indifesi ed inonorati rovinano. Da questo esempio nasce l’umore delle parti, e la potenza di quelli; perché i cattivi per avarizia ed ambizione, i buoni per necessità le sieguono»’’.

Cataldo Antonio Amoruso da Piacenza

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