Del sangue innocente delle vittime di delitti efferati si vanno sempre più spesso impregnando le nostre terre di Calabria, ma esenti non ne vanno neppure le altre terre d’Italia, a tutte le latitudini, da Cogne (il piccolo Samuele), a Santa Croce Camerina (il piccolo Loris), passando per Casalbaroncolo (Parma, il piccolo Tommy), per Cassano Ionio (il piccolo Cocò), e per le infinite altre stazioni di quella Via Crucis che annovera un numero impressionante – e purtroppo in continua crescita – di donne vittime della violenza (ne cito solo una: la giovane Fabiana, Corigliano Calabro).
Tutte le comunità toccate da questi eventi inqualificabili hanno reagito secondo modalità e tempistiche proprie, differenti tra di loro solo fino ad un certo punto: il dolore, l’ira, il senso dell’offesa al tessuto più intimo della convivenza, si sono espressi, e sono stati esteriorizzati, comunque, ad ognuna di quelle latitudini di cui sopra. Non si pensi che in Val d’Aosta o in qualunque altra parte d’Italia le reazioni della generalità delle persone siano poi così differenti da quelle dei nostri ‘marinoti’ o dei calabresi più in generale.
All’indomani dell’orrendo accadimento dell’8 marzo, mio malgrado, per mia scelta, ho seguito (horresco referens) alcune trasmissioni televisive, tra le quali due pomeridiane, andate in onda con una incredibile ‘contemporaneità’ e unità d’intenti, su Canale 5 e su RAI 1, per chiudere poi con ‘Quarto Grado’, Rete 4.
Non ho seguito le suddette trasmissioni per curiosità o ricerca di particolari pruriginosi, ma per un altro motivo: sondare quello che chiamerei ‘il percepito della calabresità’. Con questa definizione intendo significare il modo e il metodo usati nel recepire e ritrasmettere quanto avviene ad opera di calabresi, per dirla in maniera un po’ sbrigativa.
I riflettori questa volta si sono accesi (e stanno per spegnersi) sulla ‘comunità marinota’, come era ovvio ed inevitabile, poiché la cronaca è innegabilmente un diritto, solo che, a mio modesto parere di curioso della storia calabra, qui interviene quel ‘percepito calabro’ che fa esclamare ad una conduttrice TV: ‘Io Cirò Marino (sic!) lo conosco, quella è una zona centrale, guardate, proprio in questo momento sta passando una macchina!…’, (passa una macchina, chi lo avrebeb mai detto!), mentre su un’altra rete sento un esperto che afferma: ‘il killer – o i killer- non era abituato ad uccidere’ (e cosa significa? Mi sembra una constatazione risibile), oppure un’altra opinionista che dice: ‘il sospettato si è avvalso della facoltà di non rispondere, questo non mi torna!’ (da notare: ancora non si conoscevano nomi di indagati, mentre lo stesso esperto di cui sopra sbottava, facendo notare che avvalersi della facoltà di non rispondere è una scelta tecnica molto spesso adottata dagli avvocati difensori).
Fin qui restiamo nell’ambito di quella TV che molti definiscono ‘spazzatura’,’trash’ (o peggio), quella che a parole nessuno segue, salvo poi trovarsi ad avere a che fare con milioni di telespettatori condizionati, magari inconsapevolmente, dalle cose udite in quelle stesse trasmissioni.
Veniamo ora all’ondata di reazioni sdegnate suscitate da un altro giornalista, stavolta di professione, le cui esternazioni sono andate in onda su Rete 4. Il giornalista ospitato in studio, se ho ben capito, ha accusato la comunità di Cirò Marina, in pratica, di omertà e di naturale disposizione ad una insopportabile teatralità, come se i motivi di quelle esternazioni (magari esacerbate, eccessive) di dolore e rabbia potessero prescindere dalla tragicità e dall’efferatezza di quanto accaduto: oserei notare che una persona che viene uccisa non è una foto in bianco e nero buttata in mezzo ad un certo numero di righe… Da qui la dovuta reazione, via social, dei ‘marinoti’.
Torniamo ora al ‘percepito calabro’, che è una cosa molto più lunga di quel che si possa credere, trattandosi di una storia plurisecolare, della quale credo che i il giornalista e i conduttori TV di cui sopra non sappiano nulla o quasi.
Innanzitutto inviterei ad una riflessione semplicissima: l’omicidio è avvenuto l’8 marzo, data quant’altre mai significativa per le donne dell’universo mondo, ed è stato immediatamente annunciato come ‘femminicidio’, e come tale si sarebbe continuato a riportare, giudicare, riferire, se fosse avvenuto in qualsiasi parte d’Italia (Sud e Isole escluse)… Per un femminicidio avvenuto in Calabria non è esattamente così, invece, e lo dimostra il fatto che questo doloroso termine ‘femminicidio’ non è più riecheggiato negli studi televisivi, o almeno mi pare. Questo, a mio modestissimo parere, è un esempio di cosa signifchi ‘percepito calabro’: l’uccisione di una donna, in Calabria, viene derubricata, non dai calabresi, ma dagli osservatori esterni, a ‘semplice omicidio’, il che vuol dire che in questo ‘paradiso abitato da diavoli’ non è nemmeno il caso di stare a sottilizzare sulla portata di un omicidio, per femminicidio o infanticidio che sia, è un po’ come se ci venisse detto, a noi calabresi (marinoti nella fattispecie): sbrigatevela da soli, sono affari vostri.
Probabilmente, in questo mio dire sarò condizionato dalla convinzione che le nostre terre, le nostre genti, non servono più all’Italia, e anzi: credo che l’Italia sarebbe ben lieta di fare a meno di questo orpello, di questa zavorra rappresentata da quello ‘sfasciume pendulo sul mare’ che è la Calabria. Fatto ammenda di ciò, ritorno al ‘percepito calabro’, cioè a quel pregiudizio finora inestinguibile che nei secoli ha gravato sulle genti di Calabria, cioè su quelli che venivano considerati, fino al secolo scorso, ‘i selvaggi d’Europa’, e dico fino al secolo scorso riferendomi solo alla carta stampata, perché nella convinzione di tantissimi, selvaggi, o quasi, siamo considerati tuttora.
Di materiali che attestano e confermano quanto dico se ne può reperire a bizzeffe, qui segnalerò soltanto il fatto che ai calabresi spettava l’ingrata definzione di ‘tortores Christi’, cioè torturatori di Cristo, mentre nella letteratura spagnola del cinque-seicento addossare a qualcuno responsabilità e caratteristiche negative degne di un calabrese era un esercizio letterario alquanto frequente, come lo era nella letteratura italiana più o meno coeva (Matteo Bandello) e in quella a noi più vicina, prodotta da quegli stessi italiani che spesso ci hanno dipinti come dei selvaggi più o meno cattivi (cosa diversa dal dire ‘più o meno buoni’). Su questa ‘storia della letteratura sui calabresi’ mi soffermerei, più che sulle esternazioni di quel giornalista convinto che gli abitanti di un paese siano tutti omertosi e che in un paese di quindicimila abitanti tutti si conoscano e tutti sappiano tutto di tutti: è solo un pregiudizio, un pregiudizio profondamente superficiale. Certo, che un giornalista professionista, siciliano per giunta, adoperi con tanta disinvoltura la parola ‘omertà’, fuori dall’ambito stretto ai quali essa andrebbe applicata, questo dovrebbe suonare strano. O forse no, tanto si può dire tutto di tutti, anche senza sapere di cosa si stia parlando, visto che, specie da quando l’orgia mediatica della rete ha inglobato la ragione, le parole non sono più pietre… speriamo diventino boomerang, e che abbiano buona memoria!
Concludendo: cosa rispondere a quanti si avvicinano ai ‘fatti calabri’ minati nell’intelletto da tanto pregiudizio?
La risposta è la più semplice e immediata: nulla, assolutamente nulla; abbiamo il diritto sacrosanto di essere apprezzati o ignorati, trattati più o meno bene, più o meno male, per quello che siamo, per quello che valiamo, singolarmente e come comunità, come sarebbe diritto di ogni individuo, tutto qui: fatevi conoscere, al contrario di quanto si diceva quache decennio fa, quando timorosi, indecisi, molti consigliavano ‘u’nni facimi canuscire’. Le cose sono cambiate? Bene, anche noi, e … in meglio!
PS: non per dare consigli, ché non è il mio mestiere, ma segnalerei la lettura del saggio ‘Calabria in idea’, di Augusto Placanica (si trova in ‘Storia delle regioni d’Italia, La Calabria’, Einaudi 1985).
Cataldo Antonio Amoruso