E’ un pomeriggio quasi estivo e, nel capoluogo di Trinacria, il caldo non ha certo atteso a prendere il sopravvento. Le spiagge di Mondello e di Sferracavallo hanno cominciato a popolarsi: qualcuno fa il bagno, altri optano per una granita al bancone del chioschetto più in voga. I più anziani prediligono assaporare i profumi del quartiere, mentre i più piccini scorrazzano, tra un vicolo ed un altro, a bordo delle loro biciclette o dietro ad un pallone.
Ma quello del 23 maggio 1992, non è un pomeriggio come tutti gli altri. E’ una data, infatti, che rappresenterà una delle pagine più nefaste della storia italiana.
Alle 16:45, dall’aeroporto di Ciampino, decolla un velivolo con a bordo il giudice Giovanni Falcone, impegnato in prima linea nella lotta alla mafia. Dopo meno di un’ora, l’atterraggio a Punta Raisi. Falcone è sorridente ed è accompagnato da sua moglie Francesca (anch’essa magistrato, ndr). Ad accoglierlo, come ogni sabato pomeriggio, ci sono i suoi ragazzi, i suoi angeli custodi, guidati dal capo scorta Antonio Montinaro. Pochi minuti ed il corteo delle tre auto blindate è sull’A29 in direzione Palermo. Falcone è alla guida della Croma di colore bianco, in mezzo tra la Croma marrone, condotta dall’agente della Polizia di Stato Vito Schifani e quella azzurra, sulla quale viaggiano altri tre poliziotti. La linea radio è silenziosa e sembra, dunque, filare tutto liscio. Mancano circa sei chilometri per giungere alla città delle cassate e del panino ca meusa: Palermo. La città che a Falcone ha dato i natali, la città in cui è cresciuto, la città dove era amato, ma anche odiato.
Sono le 17:58, l’ora dell’orrore, l’ora dell’infamità, l’ora della vendetta di Cosa Nostra. Una folta nube nera si fionda sullo svincolo di Capaci. Un boato assordante, una mattanza senza precedenti. Una tonnellata di tritolo viene fatta esplodere, così da uccidere l’uomo che per anni aveva dato la caccia ai mafiosi. L’autostrada si sventra e la scena dell’attentato è un teatro di sangue.
Alcuni corpi sono dilaniati, altri sono rimasti incastrati nelle lamiere, ovunque vi sono brandelli di carne e l’identificazione di molti non è agevole. Le linee di emergenza cominciano ad impazzare e chi ha ricevuto le prime chiamate, ha subito compreso che, questa volta, il magistrato non è riuscito a scampare alla strage. A cadere nell’espletamento del proprio dovere, insieme a Falcone, ci sono la moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti di scorta provenienti dalla Puglia: Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo.
A seguito della morte di Rocco Chinnici (a cui si deve l’istituzione del Pool Antimafia, ndr) e del commissario Beppe Montana e dopo che, nel giugno 1989 era riuscito ad evitare l’eccidio dell’Addaura, Falcone si sentiva sempre più un cadavere che camminava. Ma, nonostante ciò, non ha mai arretrato, non ha mai desistito dal rincorrere – ad ogni costo – la legalità, non si è mai piegato ai voleri dei padrini siciliani. Sino all’ultimo anelito, Giovanni ha duellato con la malapianta in modo coraggioso, senza cedere ad alcuna forma di compromesso.
Sono passati ben 28 anni, eppure, la ferita lasciata dalla Strage di Capaci è ancora aperta e risiede nella memoria collettiva. Falcone, così come tutti gli altri onesti servitori dello Stato che hanno perso la vita per mano della barbarie malavitosa, non possono essere dimenticati e devono essere onorati, con riconoscenza, per 365 giorni all’anno. A parere del SIULP Crotonese è doveroso mantenere vivo il loro ricordo, tramandando i loro insegnamenti etico-morali alle nuove generazioni che, troppo spesso, si lasciano abbagliare dal Dio denaro.
Giovanni non è morto, nemmeno Francesca, Antonio, Vito e Rocco. Loro vivono in noi e continuano a lottare, a testa alta, insieme a noi.
“Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana.” (Giovanni Falcone)