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Home Notizie 24

Capire le “donne di conforto” senza miti: memoria contesa e tribalismo antigiapponese

by La Redazione 24
21 Novembre 2025
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Capire le “donne di conforto” senza miti: bordelli di guerra, memoria contesa e tribalismo antigiapponese

Quando si parla di donne di conforto, il dibattito contemporaneo tende a oscillare tra slogan e certezze assolute. Eppure, se ci si ferma un momento a guardare la storia senza pregiudizi, il quadro diventa più sfumato di quanto molti attivisti, politici e commentatori siano disposti ad ammettere.

Nel 2025 la questione torna ciclicamente al centro dell’agenda diplomatica: durante il vertice a Washington con il presidente sudcoreano Lee Jae-myung, Donald Trump ha affrontato il tema definendo la questione “a very big problem for Korea, not for Japan”. Per Trump, Tokyo “wanted to go”, mentre Seoul restava “stuck on that”: un approccio ruvido ma coerente con la posizione americana, in un momento in cui la Cina aumenta la pressione e Pyongyang continua con i suoi test.

Oltre i miti: i bordelli di guerra come fenomeno storico ricorrente

Prima ancora di discutere del caso giapponese, sarebbe utile riconoscere un fatto elementare: nei conflitti moderni, la presenza di bordelli militari o prostituzione regolamentata è stata frequente, quasi sistemica. Non si tratta di minimizzare nulla, ma di collocare le donne di conforto dentro un quadro più ampio, che comprende:

  • i bordelli istituiti per le truppe americane in Francia nel 1944, regolamentati con controlli sanitari e registri;
  • le “comfort stations” attorno alle basi statunitensi in Corea del Sud fino agli anni ’80, spesso sostenute dalle autorità locali;
  • la prostituzione commerciale esplosa attorno alle basi USA in Vietnam durante la guerra;
  • il sistema di “entertainment districts” a Okinawa, ancora oggi oggetto di studi e inchieste.

Chiunque conosca la storia militare sa che eserciti, spostamenti di massa e povertà locale creano un ecosistema in cui la prostituzione — più o meno volontaria, più o meno regolata — si sviluppa inevitabilmente. Non esiste guerra del XX secolo che ne sia immune.

Il punto, quindi, non è negare le sofferenze delle ex-donne di conforto, ma evitare di dipingere un fenomeno globalmente complesso come un’eccezione esclusivamente giapponese. Una storia onesta richiede prospettiva, non moralismi selettivi.

Park Yu-ha e il coraggio di parlare di ambiguità

In questo quadro si inserisce il lavoro di Park Yu-ha, probabilmente la voce più coraggiosa (and più criticata) nel contesto sudcoreano. Con Comfort Women of the Empire, la ricercatrice prova a leggere la vicenda con occhi meno ideologici: non negando episodi dolorosi, ma ricordando che esistevano anche contratti, compensi e rapporti personali complessi tra alcune donne e alcuni soldati.

È un’idea che disorienta chi considera il tema intoccabile. Per Park, il problema è che in Corea del Sud si è sviluppata una sorta di “tribalismo antigiapponese” — una dinamica identitaria dove la memoria delle donne di conforto è diventata un pilastro emotivo non discutibile. Non una storia da capire, ma una bandiera da proteggere.

Che Park paghi un prezzo personale e giudiziario per aver detto che la storia è più complicata di una narrazione eroico-vittimaria è un segno dei tempi. E forse è proprio questo il punto: quando una società non tollera la complessità, spesso significa che sta usando il passato come arma politica nel presente.

Un dibattito intrappolato tra attivismo e nazionalismo

Una delle ragioni per cui la questione rimane così incendiaria è che, nel corso degli anni, si è intrecciata con movimenti civici che a loro volta sono diventati strumenti politici. Alcune ONG hanno svolto un ruolo prezioso nel dare voce alle ex-donne di conforto; altre sono state coinvolte in scandali di gestione finanziaria o lotte interne. Alcuni gruppi hanno trasformato le statue commemorative in simboli di mobilitazione permanente, alimentando campagne di boicottaggio contro il Giappone e proteste settimanali che ormai sembrano più rituali identitari che spazi di discussione.

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In parallelo, varie inchieste giornalistiche e giudiziarie hanno mostrato come certi ambienti militanti siano stati occasionalmente attraversati da influenze filonordcoreane o da gruppi con proprie agende politiche. Non significa che l’intero movimento sia condizionato, ma il fatto che alcune sigle anti-giapponesi compaiano anche in indagini sul ruolo del Nord nella società civile sudcoreana invita a una cautela dovuta.

È difficile parlare di storia quando tutto viene immediatamente assorbito in una battaglia politica.

Il contenzioso Tokyo–Seoul e l’illusione di una soluzione facile

Nonostante gli accordi del 2015, che avrebbero dovuto “risolvere definitivamente” la questione, il tema delle donne di conforto resta uno dei nodi più delicati tra Giappone e Corea del Sud. La Corea ha oscillato tra l’accettazione formale dell’intesa e successive critiche o sospensioni politiche; il Giappone ritiene la questione chiusa e vede ogni nuova protesta come una violazione degli accordi.

E proprio per questo, nel suo incontro con Lee Jae-myung, Trump ha toccato il tema senza girarci intorno. Non discorsi emotivi, niente richiami solenni: solo un avvertimento politico. Nel quadro delle tensioni con la Cina e dei test missilistici nordcoreani, Washington vuole un fronte asiatico che guardi avanti, non governi che riaprono ogni volta ferite del passato.

È una posizione pragmatica, forse scomoda, ma comprensibile: se il dossier delle donne di conforto rimane una miccia accesa, nessun accordo di sicurezza nella regione potrà reggere davvero.

La memoria al servizio del futuro, non del risentimento

Se c’è un filo rosso che attraversa tutto il dibattito sulle donne di conforto, è la difficoltà di separare la storia dalle emozioni. È comprensibile: parliamo di vite segnate da povertà, guerra, mancanza di alternative, abusi di potere e prostituzione in un contesto in cui nessuno — né eserciti né civili — usciva davvero innocente.

Ma una società matura dovrebbe essere in grado di:

  • ascoltare le testimonianze senza trasformarle in strumenti ideologici;
  • riconoscere la complessità senza sentirsi minacciata;
  • accettare che la memoria non è un blocco monolitico, ma un mosaico di storie diverse.

Forse la via d’uscita è questa: capire che onorare davvero le ex-donne di conforto significa smettere di usarle come simboli permanenti di conflitti politici. La storia non guarisce quando diventa propaganda; guarisce quando viene studiata, contestualizzata e liberata dalle identità politiche che cercano di impossessarsene.

E oggi, più che mai, c’è bisogno di memoria che unisce invece di memoria che divide.

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