Ho vissuto in una famiglia, dove mio padre era pescatore e quando sento parlare del mare e precisamente, quello di Cirò Marina, mi assalgono i ricordi di quei bei tempi passati e la nostalgia va a scavare nel profondo dell’anima. Adesso tutto è cambiato, non si riconosce più il nostro lungomare e parlando con degli amici ho fatto una considerazione: “Se venisse mio padre dall’aldilà, non riconoscerebbe più questo luogo!”. Io ricordo questa spiaggia con un arenile lunghissimo, che partiva da Punta Alice e finiva a…………. Noi ragazzini, si andava al mare alla rotonda di Piazza Rossa e sulla spiaggia c’erano solo delle baracche di legno, che erano di proprietà di alcune famiglie altolocate, in tutto potevano essere cinque o sei, tutto il resto era sabbia cu’ ri loggi e varch’. Alcuni pescatori avevano u vuzzareddu. Quando andavano a pescare, varavanu u vuzzu cu ra falanga e sopra per far scivolare la barca ci mettevano u sivu. Quando salivano a bordo, i pescatori mettevano sopra u scarmu a ra notula, u stroppu, dove collocava u rimu. Si vogava fino ad arrivare nel punto giusto dove si calava a rizza. Il posto variava in base ai periodi dell’anno e si usavano diversi tipi di rizza. Sentivo dire: “Stasera si va cu’ ra lamparedda, cu’ ru cianciolu, cu’ ra minajta, cu’ ra scjabbica, cu’ ri rizziddj, cu’ ra tartana”.
Prima che calavani i rizzi, jiettavanu’ u ferru e mettevano u peinunu come segnale per riconoscere le reti cu’ ra caloma e ru manganeddu, tiravano u vuzzu e se erano andati cu’ ra scjabbica usavano a coddara. Quando era il periodo del bianchetto, si vedeva arrivare a tila da manica piena zampillante e l’acqua sembrava che ribollisse. I pescatori portavano a casa il pesce che toccava ad ognuno di loro a parta, e spesso c’erano mezze papotuli o mezzi merluzzeddi che restavano attaccati nella rete dalla sera prima o attaccati all’amiri ‘nta sporta du conzu e a casa ci si faceva a gghjotta. Era buonissima. Poi quando era quinta e non si andava a pescare perchè il pesce non ammagghjava, si mettevano i rizzi ad asciugare e si controllava se erano rotte. Si sarciva cu ra cucedda chjina e cottunu e poi ogni tanto si faceva a tinta. Si coloravano cu ru zappinu che era fatto con la buccia di pino. I cascjiotti di piscj si mettevano a puppa o a pruva subbi i tavuli du vuzzu. Dovevano fare molta attenzione a non appilare u leggiu sinno’ u vuzzareddu affunnava. Dimenticavo che il pesce veniva pesato cu’ ru coppo e vulanza. Era una bilancia fatta di due cesti di vimini legati tra loro da una corda e dentro mettevano come peso una pietra, tarata ad un chilo o più di una per arrivare ad un peso maggiore.
Caterina Filippelli
Bello e interessante molto… era ora che ti decidessi! C’è tanta storia nelle tue parole. Intanto lo ‘zappino’, che veniva importato da Taranto come attestato dal Pugliese: di questo zappino non sapevo assolutamente nulla… finora; ora i conti mi tornano perché lo zappino è il pino laricio in dialetto siciliano. E poi un dubbio: ‘appilare’ nei dialetti meridionali, campani soprattutto, significa ‘turare, chiudere, tappare’, quindi chi era a bordo della barca doveva stare attento, secondo questa versione, ad appilare u leggiu, anziché ‘a non appilare’ come tu dici…Grazie in anticipo. C. A. Amoruso.