“Domani è il 6 settembre 2013, sono passati esattamente 20 anni dalla notte dei “fuochi dell’Enichem”. In una città silenziosa, distratta e senza memoria qualcuno cerca di ricordare quella data, ma lo fa in modo parziale, di parte, dimenticando i veri protagonisti e artefici della vicenda, sminuendo gli avvenimenti quasi succubi di una volontà di chiudere il tutto nel dimenticatoio – scrive in una nota Carlo Turino, ex lavoratore Enichem. Non ho mai amato i “nostalgismi” fini a se stessi, viventi senza alcuna base ideale alle spalle, ed in tutti questi anni, pur essendo protagonista, insieme a pochi altri, di quella meravigliosa avventura, ho sempre preferito tacere ed evitare incontri pubblici, ritenendo quei giorni un patrimonio di ricordi che oramai appartengono solo alla sfera personale di ognuno di noi e non a quella pubblica di una città, la nostra Crotone, che non ama ricordare e preferisce dimenticare, perché in quei giorni la cronaca avrebbe potuto diventare storia, ma l’incapacità locale e gli interessi occulti hanno fatto abortire le speranze e la rivolta. Ho deciso di presentarmi alla manifestazione indetta dal Comune, anche se non invitato. Da solo, per prendere la parola e raccontare un’altra storia, come sempre taciuta, quella degli operai che rimasero assediati da circa 7000 uomini dell’esercito e delle forze dell’ordine per 17 giorni, quella delle donne e dei bambini che occuparono la stazione ferroviaria e lì vissero la lunga vertenza, quella del processo, terminato in cassazione con la completa assoluzione di tutti e da me interpretato con un’autodifesa che colpì l’opinione pubblica per le sue verità, lungamente taciute, insomma quella dei vinti, sconfitti non da quegli avvenimenti, ma dalle istituzioni che negli anni a seguire hanno dilapidato le centinaia di milioni di vecchie lire, pervenute a Crotone in seguito ai fuochi, senza creare neanche un solo posto di lavoro. Ritengo che la mia sia una giusta presenza ad una manifestazione per ricordare un evento che avrebbe potuto essere la scintilla della rinascita, ma, purtroppo, come tante altre cose di Calabria, fatto affogare nel dimenticatoio per non colpire il potere.
Sono trascorsi 20 anni da quel sussulto d’orgoglio dei crotonesi in difesa del lavoro, 20 anni da quella che dopo la “Rivolta di Reggio”, poteva essere l’ennesima occasione per consentire al popolo calabrese di sollevarsi compatto, al di là delle sigle di appartenenza, al di sopra delle tessere partitiche o sindacali che si avevano in tasca, al di là dei piccoli interessi di bottega, poteva, ma non lo è stata e vent’anni sono un periodo relativamente lungo per una società, che oggi continua a vivere ai margini dello sviluppo nazionale, con il cappello in mano ad attendere una qualsiasi questua. In quei giorni l’intera società rispose al grido di dolore dei lavoratori chimici, e dopo la notte dei fuochi fu il vescovo della diocesi crotonese a sfondare il cordone militare che aveva isolato la fabbrica con all’interno i suoi rivoltosi, ma fu seguito da un corteo immenso di donne, vecchi, bambini, associazioni, congreghe, cittadini di ogni età e di ogni ceto sociale, migliaia e migliaia di persone che sancirono la loro partecipazione alla storia operaia di quei giorni. Certo era una rivolta strana, rotti gli schemi politici del tempo, superando ogni divisione ideologica che scardinava la società dell’arco costituzionale e del compromesso storico, tagliato il cordone ombelicale con le centrali sindacali di regime, una guida forte, stranamente formata da due consiglieri comunali, lavoratori della fabbrica, uno del PCI ed uno del MSI, si pensava ad un isolamento totale, ma la parola d’ordine “I problemi non hanno colore” attirò la condivisione generale. Alla fine si firmò un accordo, che pur essendo, come sempre, strumento del capitale contro il lavoro, sanciva almeno la possibilità di salvaguardare una presenza industriale chimica (che sarebbe durata altri 16 anni) e dava a Crotone tre nuove possibilità: 1. La possibilità in quel momento di cambiare lo strato economico dello sviluppo del territorio, indicando il percorso e la direzione da seguire a posto della grande industria che chiudeva i battenti (turismo ? – comunicazione ? – energia?); 2. Una cascata di finanziamenti a fondo perduto per le prime iniziative che dovevano reinserire i lavoratori espulsi dal processo chimico e l’istituzione di Crotone come area di crisi, che significava il riconoscimento di un contratto d’area capace di attirare grandi investimenti; 3. Per la prima volta nella sua storia millenaria, la possibilità di decidere in loco, con il famoso comitato creato ad hoc, il futuro della nostra terra, senza demandare ad altri, fuori regione, la sua gestione. E qui arrivò la grande sconfitta, i vinti non furono i lavoratori asserragliati in fabbrica, o le loro donne e bambini accampati alla stazione ferroviaria, i vinti furono l’intera città e la sua società, perché con una incapacità sospetta, di quella pioggia di milioni di lire ( 200 solo come sovvenzione globale e altri 800 come contratto d’area), la classe dirigente politica e sindacale di allora fu capace di spendere tutto senza realizzare un solo posto di lavoro. Imbecillita’ o interesse, non so, ma la cronaca non divenne storia”.