Una splendida recensione della scrittrice e Antropologa Assunta Scorpiniti ha arricchito l’importante opera definita “Un Bene collettivo immateriale” il : “Dizionario del Dialetto e della Cultura dell’Area Cirotana”in due voll., Edizioni Consenso Publishing, del Direttore Prof. Giuseppe Virardi, presentata nei mesi scorsi a Crucoli Torretta. E’ davvero una importante monumentale opera, il “Dizionario del Dialetto e della Cultura dell’Area Cirotana”, abbinata al volume di approfondimento. Mi occupo di ricerca antropologica- scrive l’antropologa- in riferimento, soprattutto, alla storia sociale, e, in particolare, alle storie di vita, le storie individuali, che amo definire ruscelli che si immettono nel grande fiume della storia collettiva, quelle storie che sono il filo che lega passato e presente e, come dice il grande antropologo Ernesto De Martino, danno alla gente comune “il diritto di testimoniare la loro presenza nella storia”. E in un certo senso questo ha fatto anche Giuseppe Virardi con il suo lavoro.
Devo dire che quando l’ho visto per la prima volta, nella bella veste editoriale data da Consenso Publishing, ho avuto un attimo di sbigottimento, pensando alla complessità che doveva esserci dietro la mole dei volumi, parliamo di più di 1600 pagine di lemmi, locuzioni, proverbi, aneddoti, episodi, luoghi, persone, filastrocche, indovinelli, ricettari, descrizioni naturalistiche, di lavoro e di vita quotidiana in un’opera che è davvero una grande finestra antropologica e culturale che si apre sull’area cirotana, mi sbagliavo perché invece è di lettura e consultazione molto piacevole ed agile.
Un progetto principalmente di studio, parola che nella sua derivazione latina (studium) significa “aspirare a qualcosa, applicarsi attivamente”: questo ha fatto Giuseppe per oltre 50 anni. “Quasi una vita”, possiamo dire parafrasando il titolo di un famoso libro con cui Corrado Alvaro vinse il premio Strega nel 1950, nato dalle annotazioni sui suoi taccuini di tutto il materiale che gli sembrava potesse fornire uno spunto o una traccia per lavori futuri. Dal canto suo anche l’autore ha iniziato ad annotare parole, proverbi, espressioni dialettali nei suoi taccuini di giovane maestro, quando indicava ai suoi alunni il valore della lingua madre, quella dell’identità, delle emozioni, delle relazioni dirette che non hanno bisogno di troppi argomenti per essere stabilite.
E credo che questo recupero insieme agli alunni, di una storia orale tramandata di generazione in generazione, che abbia avuto un pregio immediato, di metodo; da quanto ho appreso dallo stesso autore, il materiale raccolto ha sùbito avuto una registrazione ordinata, una sorta di schedatura in progress che ha poi agevolato non solo l’opera di ricostruzione intellettuale ma anche quella di costruzione materiale, quando si è trattato di realizzare nel concreto i volumi.
A quella prima fase è seguita quella della ricerca più strettamente personale, sul campo, tra contadini, pastori, artigiani, madri e nonne, di cui ha ascoltato e poi “scritto la voce”, un procedimento di base nella ricerca antropologica, che io stessa da sempre utilizzo e che ti porta a incontrare un mondo di memoria, di episodi, di ricordi di un sistema irripetibile di vita, di consuetudini comunicative dall’espressività incredibile. Quindi ancora pazienza e tenacia, nell’intensificarsi della ricerca di racconti, ricette, elementi naturalistici, di tutto ciò che poteva essere espresso nel codice dialettale del territorio.
Ma non è bastato, perché come fa ogni studioso serio, occorreva avere una letteratura di riferimento, naturalmente in vernacolo calabrese. Tanta ne ha cercata e studiata, come ad esempio la produzione di Emanuele De Bartolo, il medico-poeta crucolese che con il realismo dei suoi brani dialettali è riuscito ad arrivare alle radici di quella civiltà contadina in cui si è rispecchiato, lungo il suo arco di vita; o il “Vocabolario del dialetto calabrese” di Luigi Accattatis.
Da qui, poi, tutto il lavoro di redazione e classificazione dei lemmi, delle etimologie, delle qualifiche grammaticali, dei significati, delle locuzioni idiomatiche; ho trovato particolarmente pregevoli e utili – giusto per rimarcare un aspetto, ma ce ne sarebbero tanti – le cosiddette voci di rinvio: il “vd”, che sta per “vedi” e ti rimanda a un altro tema o lemma per approfondire, anche nel secondo volume e scoprire altri elementi affascinanti collegati a quella parola, ulteriori testimonianze di un mondo in dissolvimento se non in parte dissolto.
Perché, lo sottolineo, un grande deterrente all’opera di dissoluzione delle identità culturali che la velocità e, se vogliamo, la superficialità del presente sta compiendo in modo quasi inesorabile, è anche lo studio, la conservazione, la valorizzazione del dialetto; cosa che l’autore ha ben capito, nell’adempiere quella che è una vera e propria missione culturale, per cui si è messo sulla scia di illustri predecessori, cito ad esempio Vincenzo Padula, sacerdote, poeta e patriota di Acri, con la sua indagine, anche linguistica, condotta tra il 1864 e il 1875, da cui è scaturito il celebre volume “Persone in Calabria”.
O il grande linguista tedesco Gerard Rohlfs, soprannominato “u tedescu” dai calabresi e più in generale “l’archeologo delle parole” che negli anni Trenta del Novecento raggiungeva a dorso di mulo i paesi più isolati della Calabria per studiarne (e salvarne) l’idioma, stabilendo un forte legame con i luoghi e le comunità e redigendo poi vari dizionari dialettali (è stato attivo fino alla fine degli anni Settanta).
O il professor John Trumper dell’Università della Calabria; con la collaborazione di una vostra illustre concittadina, la stimatissima prof.ssa Nadia Prantera, sta lavorando a un dizionario storico-etimologico del calabrese, di cui sono usciti già due volumi; e in uscita c’è anche il grande dizionario dialettale del prof. Michele De Luca, linguista e glottologo romano originario di Vibo Valentia con cui ho condiviso ricerche sulla lingua dei pescatori e che è molto interessato a questo lavoro (lo chiamo il “Rohlfs del 2000”) in quanto non ha ancora studiato i dialetti di quest’area.
Sono tutti grandi studiosi del dialetto calabrese, bene culturale dal valore inestimabile, che possiamo ascrivere alla categoria dei “beni collettivi immateriali”.
Noi siamo abituati a pensare ai beni culturali come qualcosa di visibile, materiale: le chiese, le architetture, le opere d’arte, i reperti archeologici o etnici che si trovano nei musei. Invece anche i dialetti sono beni culturali, per il loro grandissimo valore testimoniale; sono gli echi di un mondo che rischia di scomparire: definiscono e descrivono, attraverso la parola, gli oggetti, le case, le tradizioni, gli alimenti, le emozioni, la vita quotidiana di una società in perenne mutamento e che in parte, in gran parte, non esiste più.
Come sapete in questa fase, anzi in questa vita, perché ne ho avute tante, mi occupo di musei, e in particolare, del Civico Museo del Mare, dell’Agricoltura e delle Migrazioni di Cariati, che ho creato e che dirigo. Ebbene, dopo la sistemazione delle collezioni etno-antropologico, ho iniziato la costruzione della parte immateriale del museo, che ha proprio nel dialetto la sua parte principale, con interviste ad anziani, raccolta di testi dialettali in video, audio e scritti.
Diciamo che sto compiendo una musealizzazione virtuale anche del patrimonio linguistico, per cercare di sottrarre al passare del tempo un numero sempre maggiore di parole che altrimenti passerebbero senza lasciare traccia.
E questo andrebbe fatto in tutti i paesi, non solo per le lingue minoritarie come ad esempio l’arbëreshë o il grecanico che abbiamo in Calabria, che costituiscono l’idioma di abitanti di altri Paesi stabiliti in Italia, e che sono riconosciute dallo stato con un’apposita legge di tutela.
Anche i dialetti andrebbero ugualmente tutelati; non sono una deformazione della lingua italiana ma lingua di per sé. Come l’italiano i dialetti, che sono tantissimi in Italia, derivano dalla diffusione del latino, ma contengono in sé sia elementi linguistici precedenti alla diffusione del latino, sia, come il nostro dialetto calabrese, le contaminazioni linguistiche date dall’incontro con altri popoli, sia elementi culturali legati alla natura di quella società e di quel luogo, dal “sentire” del popolo di quella specifica area geografica. Da qui le infinite varianti anche nell’arco di pochi chilometri, o come avviene a Cariati, il differente lessico, ad esempio, di contadini e pescatori, o quello diventato ibrido dei primi emigrati di ritorno.
“Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà” scriveva Pier Paolo Pasolini.
Ecco perché il dialetto è parte integrante del costume e della tradizione di una regione, testimonia l’identità, la storia e le specifiche radici storiche e socio-culturali di un popolo. In questo senso, molto dannosa ritengo la demonizzazione che c’è stata del dialetto nel recente passato. Fino agli anni Cinquanta/900 è stata la lingua prevalente, dal momento che solo la scuola e pochi colti si esprimevano abitualmente in italiano. Poi c’è stato il boom economico e il consumismo che portava a liberarsi di tutto ciò che rappresentava il vecchio, e quindi del dialetto che, nella corsa consumistica verso la modernità, poteva essere indice di arretratezza. E questo almeno fino ai primi anni Novanta. Ai bambini si insegnava l’italiano come prima lingua, guai a sentirgli pronunciare una parola in dialetto; ricordo gli sforzi dei nonni che storpiavano le parole con i nipoti, non ci erano abituati, e il mio docente di lettere di prima liceo, parlo della fine degli anni Settanta, ci multava di 100 lire per ogni parola dialettale che ci scappava in classe.
Per fortuna c’è sempre il salvagente della cultura, che ha preservato il dialetto nelle opere letterarie, poetiche, teatrali, nelle canzoni, nel cinema, e ora c’è davvero una rivalutazione identitaria, una ricerca di identità, in generale e in questo campo, ad esempio con l’etnomusica. C’è interesse culturale verso il dialetto, e si sta facendo un gran lavoro, finalmente anche nelle scuola (io stessa, da insegnante, lo valorizzo fin dalle prime classi).
Il “Dizionario della lingua e della cultura dell’area cirotana” di Giuseppe Virardi va, dunque, in questa direzione… è un ottimo, ma direi fondamentale strumento di conoscenza e di lavoro.
La domanda spontanea che a questo punto sorge, è: cosa spinge un autore a dedicare 50 anni della propria vita alla costruzione di questo monumento “ara parràta cirotana”…, in cui la memoria delle persone, di costumi, usanze, luoghi, modi di dire, aneddoti, curiosità, anche imprecazioni, espressioni già modernizzate o ormai estinte?… La risposta la dà lui stesso nell’introduzione: la passione, del resto “dduvi c’è gustu un c’è perdenza”, diciamo a Cariati e credo anche qui. Ma oltre alla passione ritengo ci sia un forte sentimento del proprio luogo. Un atto di amore, di fedeltà, da vero e proprio innamorato perenne di un territorio e del suo popolo.
Raccogliere le parole, il sapere, l’esperienza, le conoscenze, le usanze, i valori, il modo di pensare, di essere, di guardare il mondo, di resistere alle avversità, del proprio popolo, è richiamare gli aspetti essenziali della vita umana e, insieme, le peculiarità della gente del luogo; quello che, nel corso delle generazioni, si è vissuto e affrontato in questo angolo di Calabria sospeso tra colline e Mare Jonio.
È, infine, riconoscere che questo popolo è portatore di cultura; quella cultura che è un patrimonio antico, elaborato nei secoli, conservato col semplice aiuto della memoria e trasmesso naturalmente.
Nessuna operazione di nostalgia o di rimpianto del passato, sia chiaro. Piuttosto, direi, un’operazione etica, di recupero della memoria collettiva, che ci consente di avere una patria, una storia e un’identità in un mondo sempre più veloce e globalizzato e di aprirci al confronto con altre culture.
In merito all’architettura e alla composizione dei due volumi dell’opera, uno di dizionario, l’altro di temi di approfondimento, ne parlerà l’autore.
Mi soffermo, invece su due cose, per me significative, mentre ci sarebbe da dire su ogni aspetto: la cura della fraseologia, il frasario, abbinato alla maggior parte dei lemmi, e la collezione dei proverbi. Ad esempio, a pag. 696 la parola spagnari è definita verbo nel significato di spaventare, temere, avere paura; dal latino “ex panicare”: essere preso dal panico; dallo spagnolo “espaniar”, avere paura. il termine richiama la parola “Spagna” ai tempi dell’inquisizione, che incuteva terrore; frasario: “fari spagnari”: impaurire; “spàgniti iru riccu appizzentuti e iru poviru arricchisciutu”; “t’è spagnari i chiru ca ti parini cioti”; “t’è spagnari i l’occhiu e no d’a jistigna!”.
Ti fa capire il lavoro fatto da Giuseppe, di valorizzare la funzione pregnante di una parola se contestualizzata in un discorso, in una situazione, in un pensiero. La forza del dialetto nelle frasi è, infatti, l’elemento trainante, per come arricchisce la parola e le conferisce un aspetto fortemente evocativo e descrittivo di ogni specifico elemento, rispecchiando il pensiero dei nostri antenati e il sistema di vita delle società tradizionali.
E poi i proverbi. Devo dirvi che fin da piccola ho avvertito la capacità immediata delle persone anziane di associare una “perla” di saggezza popolare ad ogni circostanza, a qualunque episodio, agli eventi non consueti o, piuttosto, ai fatti della quotidianità.
Mi ha sempre colpita anche la “musica” di quelle sentenze, pronunciate, puntualmente, tanto da mia madre, dalle zie più grandi, dalle anziane del vicinato, quanto da mio padre agricoltore, il più delle volte indicando, nel discorso, da chi le avevano ereditate: “La mammaranna diceva…”, “Mi ricordo quella bonanima…”.
Per chi, come me, è attratta dalla ricchezza della parola, il gioco delle assonanze ha un fascino particolare; ancora più sapendo che tale pratica ha consentito – proprio attraverso i proverbi – la trasmissione di tanta poesia naturale, dalla struttura linguistica semplice quanto colma di consapevolezza, rappresentazioni e immagini strettamente collegate alla vita e all’ambiente circostante, ai fenomeni naturali, alle piante, gli animali, gli astri… tutte cose che nei secoli hanno dato modo di conoscere e un pretesto per proporre regole di vita, dati dell’esperienza, esortazioni, avvertimenti.
Credo per questo che il lavoro di raccolta e interpretazione dei proverbi fatto da Giuseppe sia molto interessante da questo punto di vista; sia, fatemelo dire, un’opera nell’opera, che le dona un pregio ulteriore, tra i tanti che possiamo attribuirle.
Questi due volumi sono davvero un grande documento della storia collettiva che, nonostante le attuali contaminazioni – positive senz’altro – dei linguaggi e delle culture, anche in Calabria si sta costruendo col lavoro paziente ed appassionato di tanti ricercatori, narratori, cultori dei principi dell’identità e dell’appartenenza ai luoghi, come Giuseppe.
Tengo a sottolineare che non si tratta di un’operazione di nostalgia o recupero in chiave folkloristica o di ricostruzione di cose passate, ma di un impegno appassionato quanto puntuale, di rilettura e interpretazione di una cultura elaborata nei secoli e di un intero contesto socio-culturale, da affidare alle nuove generazioni, per la formazione della loro coscienza civile e perché possano camminare per il mondo sapendo bene chi sono e dove devono andare.
PER QUESTO AUGURO AL LIBRO TANTA FORTUNA, SOPRATTUTTO ALL’INTERNO DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE, magari, è una proposta, anche in versione digitalizzata, virtuale, che accompagni quella cartacea e possa anche appartenere all’esperienza di ricerca dei giovani di oggi. Credo che questo faciliterebbe l’accesso dei giovani all’opera e a tutto quello che comporta e contiene.
Infine un commento a una nota dell’autore in cui, molto modestamente, dichiara di non aver avuto, nella sua impresa, un intento scientifico, ma solo provocatorio e di stimolo alla riflessione sul mondo dei padri, per chi si interessa di questi temi e pertanto si affida alla benevolenza dei lettori o di chi vorrà consultarla, e magari correggerla.
Lo stesso prefatore, l’illustre prof. Raffaele Guerrazzi, dice: “non sappiamo quanto quest’opera saprà soddisfare i palati fini dei Cirotani, dei Marinoti e dei Crucolesi”.
Io lascio il giudizio agli esperti, ma concordo con una cosa affermata dal professor Guerrazzi nel suo testo introduttivo: l’invito ad accostarsi a quest’opera CON RISPETTO.
Una pubblicazione, un lavoro culturale di tale portata merita tanto rispetto, anche perché, e ne so qualcosa, è fatta con amore, col sudore della fronte e con il grande valore della gratuità. Cito per questo un grande studioso italiano, da poco prematuramente scomparso, autore, tra l’altro di un libro-manifesto sul valore della cultura, dell’arte e della bellezza, il prof. Nuccio Ordine. “Ormai è sotto gli occhi di tutti il fatto che ogni singolo aspetto della vita degli uomini sia inquinato dall’utilitarismo, dal bisogno sfrenato di ricavare profitto. Ma in una società in cui viene ritenuto utile solo ciò che produce profitto, non ci si rende conto che tutti quei saperi ritenuti inutili, perché non producono profitto, sono fondamentali per l’umanità, perché ci rendono migliori”.