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Home Avvenimenti

Dalla domenica delle Palme alla Resurrezione, i riti calabresi

by Mimmo Stirparo
23 Marzo 2013
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Dalla domenica delle Palme alla domenica di Resurrezione la Settimana Santa che la Cristianità ricorda e rivive la Passione e la Pasqua del Cristo Risorto, la festa del sacrificio, della resurrezione e soprattutto dell’istituzione dell’Eucarestia dall’evento dell’Ultima Cena. La Pasqua, la festa che ricorda il passaggio dalle tenebre alla luce e già perchè in ebraico significa pesah (passare oltre), e per gli Ebrei era la festa, della liberazione, del passaggio degli Israeliti dall’Egitto. Se si lascia, per un momento, il versante liturgico-biblico, annotiamo gli elementi della tradizione popolare che ben si sposano con gli eventi della vita di Gesù. Già dalla domenica delle Palme ha inizio l’incessante e progressivo alternarsi di riti che non conoscono i limiti del tempo e che seppur sconfinano dal sacro al profano, sono riti che diventano simbiosi necessaria che dona più spessore all’espressione popolare del grande martirio che è il sacrificio di Cristo, ma facciamo emergere spunti di riflessione che si traducano nella quotidianità: esseri veri cristiani. In alcuni centri della Calabria, i devoti portano sull’altare grossi fasci di rami d’ulivo ornati di nastri e fiori ai quali appendono offelle cioè focacce dolci con fichi secchi, mele, arance e altro. Da qui l’origine delle donne calabresi di preparare i dolci pasquali, le cuzzupe, il venerdì santo che non dovevano essere mangiate prima del tocco, il suono della Gloria che annuncia la resurrezione del Cristo, come a Cutro i bambini in festoso corteo trascinando una quantità enorme di barattoli proprio per fare rumore. Le cuzzupe avevano un significato simbolico molto forte e servivano a comunicare messaggi di stima e affetto tra famiglie di diversa appartenenza. Tant’è che venivano scambiate anche tra i fidanzati e in un modo particolare: la famiglia della fidanzata donava a quella del fidanzato una cuzzupa a forma di cuore e si veniva ricambiati con una cuzzupa detta “abbracciata” per augurarsi un abbraccio. È opinione diffusa che anche i ramoscelli d’ulivo, una volta benedetti, non debbano essere regalati, se non dopo il venerdì santo, altrimenti sarebbe cattivo augurio. Il Giovedì Santo la Chiesa rievoca l’Ultima Cena di Gesù. Negli anni passati in molte chiese della Calabria si invitavano dodici poveri del paese che venivano vestiti di bianco e ai il sacerdote celebrante lavava i piedi con acqua benedetta. Dopo il lavaggio lo stesso sacerdote, come avviene ancora oggi, asciugava e baciava i piedi dei dodici ai quali veniva dato un grosso pane. Scrive l’antropologo Raffaele Corso che “la cerimonia della lavanda ha oggi un carattere simbolico, come atto d’umiltà; ma in antico, nella Palestina, aveva altro significato, riferendosi al costume di lavare le estremità inferiori dell’ospite, prima di riceverlo in casa. Il simbolismo traspare dai Vangeli, perché Gesù con la lavanda vuole significare l’integrazione dei discepoli, aggregandoli alla Casa del Signore.” In molte chiese della Calabria c’è ancora la tradizione di suonare, alla fine della funzione religiosa, uno strumento di legno, detto troccola, invece della campana, perché la Chiesa entra in lutto. Nella stessa serata del Giovedì vengono preparati quelli che impropriamente, ma ormai per tradizione, vengono detti i Sepolcri che dai fedeli vengono visitati di chiesa in chiesa fino a notte come a Crotone tra le viuzze del centro storico. I sepolcri sono altari che custodiscono il “corpo di Cristo” dopo l’istituzione dell’Eucarestia durante l’Ultima Cena e sono adornati dai grasti, vasi con chicchi di grano precedentemente posti in germoglio al buio ed in cui si crede di discernere la sopravvivenza dei giardini di Adone o del fenicio Thammuz, di cui fa fede il profeta Ezechiele (VIII, 14).

Il venerdì Santo, giorno della morte di Cristo, è considerato davvero un giorno sacro e ovunque è rispettata la rigidità alimentare, come tutta la settimana del resto, ed in passato si mangiava esclusivamente di magro. Nella consuetudine calabrese il venerdì santo era il giorno dei divieti: e soprattutto non ci si pettinava i capelli e c’è un motivo per questa proibizione. Si narra che nel giorno della crocifissione la Vergine Madre andasse in giro alla ricerca di Gesù; stanca e assetata si fermò presso un casolare dove una donna si stava pettinando e le chiese un po’ d’acqua da bere, e questa, disturbata, gliela rifiutò in malo modo.  Il giorno della festa, la domenica di Pasqua, di primo mattino, ci si lavava con l’acqua attinta la notte della Veglia pasquale, “l’acqua nova” che veniva anche conservata in brocche contro le “magarie”.  E durante la Settimana Santa la Calabria è teatro di sacre rappresentazioni di carattere folclorico e cariche di dimensione penitenziale. Sono famose le “passioni” e le “pigghiate” di Laino Borgo, Luzzi e Tiriolo; le processioni del venerdì santo: quella dei Misteri di Sambiase, la processione del Cristo morto con l’Addolorata a Nicastro, la “schiovazione” a Serra San Bruno. Per il sabato santo ci si ritrova ancora a Serra San Bruno per la processione, fino al calvario, della “naca” col Cristo adagiato su un letto adornato di centinaia di fiori ed angeli di pregevole fattura artistica assieme all’Addolorata, la Maddalena e il San Giovanni. A Caulonia il “Caracolo” che ricorda un evento del 1640 e la Bussata; a Luzzi il famoso “incanto dell’Addolorata” di origine spagnola. Ma assieme al culto della morte c’è bisogno della riaffermazione della vita, un bisogno di resurrezione che si manifesta, la domenica di Pasqua, con le “Affruntate” o “Cunfrunte” (Vibo, Arena, Dasà, Soriano, Mileto e altrove) dove il Cristo risorto, dopo una corsa veloce dei fedeli, si “incontra” con la Madre; a Caulonia la “Svelata” che scopre, “svela”, appunto, il Risorto. Sono tutti riti organizzati da antiche confraternite religiose e laicali che vogliono perpetuare il culto della morte e del dolore come temi centrali che pervadono la vita sociale degli uomini. Su questo versante, di sicuro, la rappresentazione più drammatica è quella di Nocera Terinese, “i Vattienti”(battenti), in cui non risalta la parola ma il gesto: la flagellazione e il sanguinamento. Anche la provincia crotonese offre le sue manifestazioni penitenziali: a Cutro la “naca” che richiama alla mente la sofferenza, la passione e il sorriso del suo famosissimo Crocifisso seicentesco di Fra’ Umile da Petralia; a Petilia Policastro il “Calvario”, lunga e tortuosa processione che dal centro abitato perviene al santuario della Santa Spina. Al postutto mi piace concludere con le parole dell’antropologo calabrese Vito Teti secondo il quale “ per dare maggiore valore a questi avvenimenti, occorre riviverli nel loro significato più profondo, senza spettacolarizzarli o banalizzarli. Da sempre…c’è grande partecipazione perché raccontano un legame profondo come quello tra la vita e la morte ed, inoltre, costituiscono un elemento forte dell’identità calabrese nella sua dinamicità e complessità…e le persone cercano anche un legame con la storia passata e una risposta alle paure visto che la modernità ne ha create delle nuove che sono molto più insidiose.”

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