Meglio tardi che mai! Così Mastru Brunu Pelagi, il poeta scalpellino di Serra San Bruno, entra, di diritto e con pieno merito, a far parte della lunga e bella schiera dei migliori artisti e letterati italiani. Nelle prossime settimane, nei volumi (l’81° o l’82°) del “Dizionario Biografico degli Italiani” della storica e prestigiosa Treccani, sarà inserita una pagina biografica del nostro poeta corredata da, come ci comunica il curatore Gabriele Scalessa, “considerazioni sull’importanza dell’autore nel panorama della letteratura dialettale calabrese; non tralasciando, ovviamente, l’inserimento della vicenda esistenziale entro un contesto storico più ampio, quello del regno borbonico” e del sabaudo più avanti. Lo stesso Scalessa, dottore di ricerca in italianistica presso l’Università La Sapienza di Roma e attualmente PhD Student presso l’Italian Department dell’Università inglese di Warwick, aggiunge che la pagina della Treccani ospiterà anche, in bibliografia, un mio articolo su Mastru Brunu apparso ai nn° 4-5-6 del 2003 di Calabria Letteraria e gli scritti di Carmine Chiodo, studioso di letteratura calabrese.
CHI ERA BRUNU PELAGGI – Il 15 settembre 1837 da Gabriele e Giuseppina Drago, nasceva a Serra San Bruno Mastru Brunu Pelaggi, poeta dialettale, precursore e protagonista – vittima della mai risolta “questione meridionale”.
Parlare e scrivere di Mastro Bruno, infatti, è di una forte e sconcertante attualità a dispetto del secolo che ci divide. I temi della sua poesia spicciola e senza pretese linguistiche o sintattiche e tanto meno metriche (scalpellino da mattina a sera senza voler essere o apparire “poeta” ma semplicemente raccontare a sé stesso e al suo vicinato “li stuori” come definiva i suoi componimenti che non scriveva, seppur sapesse leggere e scrivere, ma dettava alla figlia Virginia) sono la disperazione, la fame, la povertà, l’inquietudine della povera gente che resta sempre e comunque classe subalterna e derisa dalla “casta” di ieri come di oggi. Temi questi che erano un piacere ma soprattutto riflessione anche per le orecchie dell’altro illustre serrese, il Ministro Bruno Chimirri forse non affetto dai vizi della casta parlamentare del tempo, amico del poeta al quale non disdegnava di rivolgersi spesso per consigli.
Durante il ‘900 postbellico, molti eminenti rappresentanti della letteratura italiana si sono interessati della figura e della poetica dello scalpellino di Serra San Bruno. Tra i tanti Umberto Bosco che scrive: “Nei primi decenni del secolo, quando ero a Catanzaro, la figura di Mastro Bruno aveva i contorni incerti del mito. Se ne vantava l’arguzia che era addotta a esempio della causticità comunemente attribuita ai compaesani del mastro, gli abitanti di Serra San Bruno”. E più avanti per lo stesso Bosco “colpisce nella poesia del Mastro la totale assenza di fatua sconcezza, fatto singolare, dato che la poesia in dialetto era tradizionalmente considerata e non solo in Calabria, il rifugio di scherzi più o meno grossolani, di argomenti più o meno scurrili. […] Certo Bruno non arretra dinanzi a parole energiche ma nel suo testo […] esse hanno perduto il loro originario valore greve, talvolta sono intercalari. Tuttavia l’aspetto più interessante di Mastro Bruno non ci è dato da versi di questo genere, ma da altri di diverso tono, come quelli nei quali denuncia la necessità in cui i poveri si trovano a votare secondo la volontà di coloro ai quali ‘si dici no pierdi lu pani’”. Per Vincenzo Paladino, il Pelaggi è accostato al Campanella e allo Alvaro in quanto “eroi dell’azione, dell’azione e dell’utopia”. La tematica, sempre attuale più che mai, del poeta serrese, resta tutta focalizzata su: la mancanza di lavoro, la continua disoccupazione che spopola i paesi e che riempie di delusione e di profonda amarezza la povera gente arricchita di vane promesse di grandezza e di sicurezza economica predata dai Sabaudi dell’Unità d’Italia dopo la caduta del regno borbonico che non era certo da mandare sotto la ghigliottina.
Scrive Gualtiero Canzoni: “‘Di supa sta montagna/ ti jiettu ‘na gridata…’, così si leva alta e irriverente la protesta della Calabria, attraverso i versi di Mastro Bruno Pelaggi dedicati a ‘Mbertu Primu, re di un’Italia che, appena unita, cominciava a mortificare le speranze e le aspettative dei calabresi”. Rivolge le sue grida, i suoi accorati appelli anche al Padreterno, al Demonio ma ormai Mastro Bruno non ha alcuna speranza e il compianto poeta e scrittore serrese, dal quale ha attinto a piene mani tutta l’arguzia nel denunciare i mali delle popolazioni delle Serre, Sharo Gambino dice che: “per sfogare le proprie amarezze non ha più che da rivolgersi alla luna”.
Leggiamone alcuni versi: “Cu sapa chi nci vò / mu cangiria fortuna. / Forsi chi tu, uhè luna, sapirissi. / Si ‘n casu volarissi / datu chi tuttu puoi / cà cu li giri tuoi / puru niscimu./ Fuocu quantu patimu! / […] Quant’agghiuttivi amaru / ntra st’esistenza mia! / Luna, si no niscia, / quant’era miegghiu! / Ma mo chi cazzu pigghiu / ca ti li cuntu a tia / para ca sienti a mia / ‘ntra sta nuttata? / Tu, già, non si mparata? / cchiu crudeli di chistu /si ti gustasti a Cristu chi muria / jio mo chi bolaria / di mia mu sienti pena!? / Tu ti guardi la scena / e passi avanti. / […] Ma tu cu’ su’ silenziu / chi ‘nsurta puru a Dio / vidi lu cuori mieu / cuom’è chi ciangia. / […] Tu passi, ti ndi vai / ti ndi strafatti, / e supa di nui tutti / muta tu t’irgi e nchiani / lu stiessu fai dimani / e nui murimu!” Una “luna indifferente – scrive Vittorio Torchia – come Umberto re, come il barone – padrone, e nessuno dei tre avverte la minima ansia di voler sapere quel che accada o come viva il loro suddito – zappaterra o suddito – scalpellino”, insomma, “una luna del mondo locale. Cioè componente di quella vita di paese sempre ricolma di contraddizioni, di beghe, di lotte, di stenti”. Alla luna del Pelaggi è poesia alta che ha offerto il fianco a molti critici i quali pensano a letture leopardiane e segnatamente al “canto notturno”. E non è neanche pensabile che andasse a consultare libri e opere di valore custoditi nella rinomata e ricchissima biblioteca della Certosa serrese o in quella dell’amico Chimirri. Sapeva leggere e scrivere eccome ma aveva altro cui pensare e del resto “come faceva a tenere in mano la penna un uomo che passava tutto il santo giorno a tenere la mazzetta e lo scalpello in mano?” come scrive don Leonardo Calabretta, oggi parroco della chiesa Matrice di Serra.
Comunque sia, finalmente e a giusta ragione, tutta la considerazione favorevole venutagli dai critici letterari è stata consacrata con l’inserimento di “Mastru” Bruno in diverse opere antologiche apparse in questi anni. La prima è quella della prestigiosa Editrice La Scuola di Brescia del 1986 curata da Pasquale Tuscano e adottata nei Licei. In questo lavoro il Pelaggi è accomunato ai vari Gioacchino da Fiore, Galeazzo di Tarzia, Campanella, Schettino, Jerocades, Padula, Misasi ed altri. Del poeta serrese sono ospitate le poesie migliori, o, se volete, le più conosciute, Lettera al Padreterno, Alla luna e Alla Vergine Maria. Per il curatore Tuscano “Mastro Bruno ha una personalità prorompente, definita e quasi incisa con quello scalpello che certamente gli sarà stato più familiare della penna”.
Nel 1997 il Pelaggi è ospite di “Storia della letteratura calabrese – Novecento” edita da Periferia di Cosenza e curata da Pasquino Crupi. Per questi, la poesia di Mastro Bruno “è una virata vigorosa, decisa verso lo sfasciume umano, perdurante pur dopo il compimento dell’unità nazionale […]. Capì subito che la povertà calabrese dipendeva da come lo Stato funzionava nei suoi rapporti con il Mezzogiorno. Non disse, perciò, solo quello che la povertà rappresentava, ma da dove nasceva e perché”. Insomma, scrive Giampiero Nisticò, “lo scalpellino non arriva a postulare capovolgimenti strutturali, ma ha chiara la visione della dimensione disumana della società, in cui le parole servono ad ingannare il povero per meglio difendere i ricchi, ingordi e ciechi”. Al postutto, mi piace sottolineare un ultimo e non secondario aspetto della vita e della poetica del Serrese. Se si va a leggere Alla vergine Maria, lirica di alta sublimità da essere accostata, come fa don Calabretta, alla preghiera che Dante “mette in bocca a S. Bernardo nel canto XXXII del Paradiso”, non si potrà mai dire che Mastro Bruno sia stato ateo, anzi, come scrive ancora Calabretta, “non solo non fu un senza Dio, ma fu un’anima profondamente e direi delicatamente religiosa. Egli fu di dichiarata e manifesta religione cattolica. Una fede intrisa di religiosità popolare, se vogliamo, ma non per questo meno bella e meno sentita. Anzi”. Moriva nella sua Serra San Bruno il 6 gennaio 1912.